Mezzogiorno di Scienza

Ritratti d
’autore di grandi scienziati del Sud

Adriana Giannini


 

Gli scienziati del Mezzogiorno non solo fanno parte a pieno titolo della storia della scienza italiana – anzi, della storia universale della scienza – ma hanno partecipato in maniera intensa alla vita culturale, sociale e politica dell’Italia e dell’Europa. Eppure molti di essi non li conosciamo affatto o li conosciamo in maniera approssimativa. Ecco perché mi fa piacere segnalare quest’opera collettiva curata e in parte scritta da un bravissimo e competente giornalista scientifico, Pietro Greco, scomparso improvvisamente a 65 anni, il 18 dicembre scorso, pochi giorni dopo l’uscita di questa sua ultima fatica.

Sono 14 i ritratti delineati in questo libro da 14, anzi 15, autori scelti con cura per la loro competenza nei vari campi in cui emersero gli scienziati, ma anche – e questo lo si capisce molto bene leggendo i diversi, ma sempre sentiti contributi – per la loro vicinanza spirituale al personaggio che è stato loro affidato con la missione di far conoscere al lettore anche l’ambiente storico, sociale e culturale in cui si è trovato ad agire.

E quanto siano importanti questi ultimi aspetti per scienziati vissuti tra il XVIII e il XX secolo, come sono quelli descritti nel libro, lo dimostra da subito Domenico Cirillo, il primo a essere preso in considerazione. Nato nel 1739 in una buona famiglia napoletana di studiosi aveva percorso una brillante carriera come medico e botanico, due discipline che a quei tempi si completavano l’un l’altra, ottenendo ben presto una cattedra, una buona fama a livello internazionale e la direzione del Museo di storia naturale. Ma non basta: dal 1777 era diventato medico personale dei sovrani Carolina e Ferdinando e docente di ostetricia e fisiologia all’Ospedale degli incurabili, dove si dava da fare per modernizzare la didattica e la somministrazione spesso più rischiosa che utile dei farmaci.

Tutto cambiò nel 1798 quando la proclamazione della Repubblica partenopea appoggiata dai francesi lo catapultò volente o nolente nella politica. Dopo parecchie esitazioni accettò di far parte del Governo nella speranza di giovare al popolo. La sua carica era durata solo una quindicina di giorni, ma tanto bastò per farlo condannare a morte alla restaurazione dei Borbone. Forse avrebbe potuto ottenere la grazia, ma non volle chiederla per sé solo. Andò dignitosamente al patibolo il 29 ottobre 1799 insieme ai compagni di quella sfortunata e utopistica avventura.

Anche per il futuro grande chimico Stanislao Cannizzaro la parentesi politica del 1848, in cui partecipò ai moti per la proclamazione del Regno indipendente di Sicilia divenendo a soli 22 anni  deputato del governo rivoluzionario, avrebbe potuto finire con una condanna a morte al ritorno dei Borbone nel 1849. Cannizzaro fu però più fortunato di Cirillo: riuscì a riparare in Francia dove poté riprendere e approfondire la sua formazione di chimico iniziata a Pisa. Due anni dopo riuscì a tornare in Italia mettendosi al sicuro sotto i Savoia e dando inizio a una carriera di docente che lo portò nel 1855 a soli 30 anni alla cattedra presso l’Università di Genova  dove, primo al mondo, elaborò una definizione precisa dei concetti di atomo e molecola.  Definizione pubblicata in un lavoro dal sobrio titolo Sunto di un corso di filosofia chimica, ben presto conosciuto e apprezzato dai più noti chimici europei.

Cannizzaro era però rimasto legato alla sua Sicilia e, quando la spedizione dei Mille la liberò dal regime borbonico, volle ritornare nella sua Palermo dove venne istituita per lui una cattedra che gli consentì di creare un’importante scuola di chimica. Politica e ricerca continuarono a occupare la lunga vita di Cannizzaro portandolo nel 1871 a Roma come senatore, ordinario di chimica all’Università e membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Di lui ci restano, come racconta molto bene Pietro Greco, parecchi avanzamenti nel campo della sua disciplina, ma soprattutto il merito di aver fondato a Roma una Scuola di chimica moderna che attirò i giovani migliori da tutto il paese.

Diversa e peculiare la situazione per gli scienziati nati alla fine dell’Ottocento e destinati quindi a fare carriera sotto il Governo di Mussolini. Nel libro ne sono ritratti tre: il matematico Mauro Picone, padre indiscusso dell’informatica italiana, il chimico Francesco Giordani che fece crescere l'industria chimica italiana e Domenico Marotta, anche lui chimico, fondatore e direttore dell’Istituto superiore di Sanità (ISS). Tutti e tre si prefiggevano di far progredire l’Italia portandola al livello dei più avanzati paesi occidentali e per realizzare questo scopo non si fecero scrupolo di collaborare con il regime fascista. Picone si definiva entusiasticamente “italiano, fascista e siciliano”, Giordani appoggiò e rese possibile lo sforzo autarchico del paese, Marotta si impegnò nella produzione di sieri e vaccini per l’Esercito in azione nell’Africa Orientale. E, in effetti già in epoca fascista furono notevoli i risultati che essi ottennero. Picone riuscì a fondare l’Istituto nazionale per le applicazioni del calcolo (INAC), Giordani apportò fondamentali innovazioni nell’industria chimica nazionale e Marotta sviluppò la ricerca di base e applicata collaborando con istituzioni internazionali.

Erano personaggi troppo utili e importanti per rinunciarvi dopo la caduta del fascismo il che consentì loro di superare indenni le indagini delle commissioni di epurazione. Picone consolidò anzi la sua posizione tanto che nel 1951 il “suo” INAC si aggiudicò in seno all’Unesco il titolo di Centro internazionale di calcolo. Ciò gli consentì l’acquisto del calcolatore FINAC inaugurato a Roma nel 1955 che negli 11 anni della sua operatività diede un forte slancio alle attività dell’Istituto. Giordani fu ritenuto indispensabile per l’attuazione della ricostruzione economica e industriale del paese nell’ambito del piano Marshall e fu inviato negli Stati Uniti per studiare le infrastrutture della ricerca e dell’industria e applicarle all’Italia e in particolare al Mezzogiorno.  A lui fu poi affidata la direzione del CNR nel 1957, anno in cui gettò le basi per un utilizzo europeo dell’energia atomica a scopo pacifico. Per quanto riguarda Marotta, diresse con successo l’ISS per 26 anni gestendo con abilità i rapporti con l’industria privata. Un settore delicato che nel 1964 - tre anni dopo aver ormai lasciato a 75 anni la direzione dell’Istituto - gli fece cascare addosso l’accusa infamante di irregolarità amministrative su cui si gettarono la stampa,  soprattutto di sinistra ,e la pubblica opinione. Processato e condannato a sei anni dal tribunale di primo grado fu poi assolto in appello.

Non vollero invece collaborare col regime fascista i due personaggi più famosi descritti in questo libro: il matematico Renato Caccioppoli e il fisico Ettore Majorana. In effetti Caccioppoli, da spirito libero qual era, non nascose  mai la sua antipatia per il regime: non portava né distintivo né camicia nera, come del resto sua zia Maria Bakunin. Ebbe però sempre l’appoggio di Mauro Picone che, nonostante fosse d’idee opposte, lo considerava il suo allievo più geniale, il suo erede. In effetti la carriera di Caccioppoli fu rapidissima: a 26 anni divenne ordinario all’Università di Padova e tre anni dopo rientrò a Napoli dove era stata creata appositamente per lui la cattedra sulla teoria dei gruppi poi divenuta di analisi superiore. Infine tra il 1943 e il 1959 ricoprì la cattedra di analisi matematica algebrica e infinitesimale. I due autori del ritratto di Caccioppoli, Guido Tronbetti e Barbara Brandolini sono due docenti di analisi matematica e quindi spiegano in maniera competente ed efficace i contributi di questo grande. Raccontano però con sensibilità anche gli aspetti umani e caratteriali di questo personaggio fuori dal comune, bravo pianista, esperto cinefilo, ironico affabulatore. Trattano con delicatezza anche il suo suicidio a 55 anni, forse dovuto alla solitudine o alla consapevolezza di non poter dare più nulla alla sua matematica.

Aveva solo 32 anni il geniale fisico Ettore Majorana quando decise di lasciare dopo soli tre mesi la cattedra di fisica teorica all’Università di Napoli, che gli era stata assegnata “per alta e meritata fama” nell’ottobre del 1937, e scomparire per sempre durante il viaggio in nave che l’avrebbe dovuto portare in famiglia a Palermo. Ancora adesso ci si chiede che cosa ne sia stato di lui; quello che si sa sicuramente è che temeva le possibili applicazioni della fissione nucleare su cui lavoravano a metà degli anni trenta Enrico Fermi e gli altri “ragazzi di via Panisperna”.

Anche una delle due scienziate ritratte in questo libro Maria o meglio Marussia Bakunin, prima donna in Italia a laurearsi in chimica nel 1895 all’Università di Napoli e ad ottenere una cattedra in quell’Università, trascorse sotto il fascismo buona parte della sua carriera di docente. Tuttavia, forse per il fascino del suo cognome - il padre all’anagrafe era il famoso e sempre errante principe anarchico che affidò la giovane moglie russa a un suo sostenitore, un benestante avvocato napoletano - forse perché era una donna e forse perché seppe restare nel suo ambito accademico pur rendendosi utile alla nazione con un efficace processo per la produzione della cellulosa dalla paglia, riuscì dapprima a non farsi troppo coinvolgere dal regime e poi a non essere neanche sfiorata dalle epurazioni. Sicuramente un punto a suo favore giocò il coraggio con cui difese libri, documenti e attrezzature dell’Istituto di chimica e della vicina Accademia Pontiana dai nazisti inaspriti  dall’armistizio dell’otto settembre 1943. Arrivò a sedersi in mezzo alle fiamme con cui volevano distruggerli riuscendo a fermare il rogo e a salvarne una buona parte. Grazie a questa prova di attaccamento e all’appoggio di Benedetto Croce, il nume degli intellettuali partenopei cui facevano riferimento gli Alleati, riuscì a mantenere la sua cattedra e a conservare fino ad oltre l’età della pensione la sua alta fama di docente.

Come la Bakunin anche l’altra scienziata raccontata in questo libro portava un nome importante, ma anch’essa riuscì a brillare di luce propria. Era figlia di Francesco Saverio Nitti, primo meridionalista a diventare ministro nel 1911, presidente del consiglio nel 1919-20 e coraggioso antifascista costretto all’esilio a Parigi nel 1923. Qui Filomena Nitti compì i suoi studi laureandosi con una tesi in chimica biologica. Impegnata anche in politica sposò il giornalista ebreo polacco Stephan Freund con il quale visse qualche tempo in Russia. Il matrimonio finì nel 1936 e lei tornò a Parigi con i due figli nati nel frattempo. Lì, grazie al fratello medico ricercatore all’Istituto Pasteur, poté iniziare a lavorare nel settore in cui si era laureata collaborando con un giovane biochimico molto promettente Daniele Bovet. Con Bovet nacque subito una bella intesa lavorativa e sentimentale. Dopo il matrimonio avvenuto nel 1939  Filomena trovò un suo spazio nello studio delle tossine dei serpenti e nello sviluppo dei sulfamidici e degli antistaminici. Durante la guerra, insieme al fratello e al marito, capo del laboratorio, si rese preziosa rifornendo i partigiani francesi di penicilline, siero antitetanico e sulfamidici.

Dopo la guerra tutti i Nitti vollero ritornare in Italia e Daniele Bovet accontentò di buon grado la moglie, anche perché Marotta gli aveva offerto la direzione del neonato laboratorio di chimica terapeutica dell’ISS.  Lì i coniugi presero a occuparsi soprattutto di anestetici e rilassanti muscolari come il curaro firmando insieme tutti gli articoli. Questi lavori valsero però solo a uno dei coniugi, ovviamente a Daniel Bovet, il premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 1957. Nonostante i successi, tuttavia, in seguito allo scandalo Marotta del 1964 la situazione divenne pesante anche per i Nitti-Bovet tanto che entrambi si trasferirono in Sardegna, lei al CNR di Sassari e lui  alla locale Università.  Il ritorno a Roma al CNR cinque anni dopo li vide entrambi impegnati nel campo della psicobiologia e psicobiologia, un settore nuovo in cui Filomena si fece notare per i suoi studi sulla memoria e l’apprendimento dei topi.

Ma se i primi anni sessanta furono insidiosi anche per scienziati che nulla avevano a che fare con il potere economico e politico del nostro paese si può ben immaginare quanto lo siano stati per un personaggio come il napoletano Felice Ippolito il quale, partendo dalla sua esperienza di ingegnere- geologo, si convinse fin dai primi anni cinquanta che l’unico modo per rendere indipendente dal punto di vista energetico l’Italia era necessario puntare sull’uso pacifico dell’energia nucleare entrando a far parte dell’EURATOM, la Comunità europea dell’energia atomica nata nel 1955.  Con il dinamismo che lo contraddistingueva Ippolito, nonostante le resistenze del governo italiano, riuscì a  farsi nominare segretario del settore nucleare del CNR, a dare il via agli impianti della Casaccia e di Ispra e, nel 1960 a far nascere il CNEN, il Comitato nazionale per l’energia nucleare. Nel 1963, al vertice della sua carriera come segretario del CNEN e con tre centrali nucleari già realizzate, Ippolito venne anche nominato consigliere dell’ENEL l’ente per l’energia elettrica da poco nazionalizzata. Troppo potere in mano a una sola persona? Si scatenarono le invidie e gli interessi a partire dal direttore generale dell’Enel alle multinazionali del petrolio, dal segretario del PSDI Saragat alla stampa di centro-destra e su Ippolito si rovesciarono accuse inconsistenti, ma infamanti: peculato, falso in atto pubblico, abuso di poteri d’ufficio. Accuse sufficienti a farlo arrestare, metterlo sotto processo e farlo condannare nell’ottobre del 1964 a 11 anni di prigione ridotti in appello a 5. Nel marzo del 1968 Saragat, divenuto presidente della Repubblica gli concesse tardivamente la grazia.

Diversamente da quanto era successo all’anziano Marotta, la gogna aveva colpito un cinquantenne nel pieno della sua carriera. L’Italia non avrebbe più avuto una svolta nucleare, ma Ippolito seppe ricostruirsi un ruolo di spicco nella società italiana.  Appena uscito di prigione mise in piedi quella che sarebbe diventata la più importante rivista divulgativa italiana “Le Scienze” che negli anni ispirò e continua a ispirare generazioni di studenti e di giovani ricercatori.  Tornò anche a insegnare la sua amata geologia prima all’Università di Napoli e poi a Roma, divenne deputato europeo, si occupò di protezione civile e di Antartide. Rimase insomma un grande, lasciatelo dire a chi l’ha conosciuto di persona.

Vi sono altri interessanti scienziati descritti in questo libro. Il naturalista Oronzo Gabriele Costa che, quando il giovane Darwin faceva il suo viaggio intorno al mondo,  già si interrogava sul problema dell’origine delle specie. Il fisico teorico Edoardo Caianello, selezionato nel 1948 per frequentare il prestigioso MIT di Boston e divenuto dopo questa esperienza un apprezzato esperto di meccanica quantistica a livello internazionale. Tornò in Italia nel 1955 per ricoprire la cattedra fisica teorica che gli era stata assegnata all’Università di Napoli. Qui non solo sviluppò una scuola di perfezionamento, ma fondò una innovativa scuola di cibernetica.

E ancora il matematico Ennio De Giorgi, genio riservato e vanto di Lecce, la sua città natale, e della Scuola Normale di Pisa dove lavorò e insegnò per quasi quarant'anni e infine il Nobel per la medicina Renato Dulbecco, un po’ forzatamente inserito tra gli scienziati del Mezzogiorno perché da Catanzaro, dove nacque nel 1914, andò bambino in Liguria, poi a Torino dove si laureò e da dove si trasferì negli Stati Uniti, paese in cui si svolse quasi tutta la sua soddisfacente carriera.

 

Pietro Greco a cura di,
Mezzogiorno di Scienza. Ritratti d’autore di grandi scienziati del Sud
pp. 256, Edizioni Dedalo, Bari 2020 (euro17)

 

 

28 Gennaio 2021